Le virtù eroiche di Jérôme Lejeune, il genetista che amava la Vita

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Nelle scorse settimane abbiamo appreso con gioia la notizia del riconoscimento, da parte della Congregazione per le Cause dei Santi (su autorizzazione di Papa Francesco), delle “virtù eroiche” di Jérôme Lejeune, il grande genetista francese noto per aver scoperto la Trisomia del cromosoma 21 quale causa della sindrome di Down. Un primo passo, dunque, verso la futura beatificazione per la quale si attende l’eventuale miracolo che dovrà essere compiuto per sua intercessione.

Lejeune nacque il 13 giugno 1926 da una famiglia cattolica, in un comune alle porte di Parigi (Montrouge). Fin da bambino era attratto dalla “scienza”, da ragazzo era rimasto talmente affascinato dal «Medico di campagna» del romanzo di Honoré de Balzac, da voler diventare medico condotto. Per questo si iscrisse a Medicina e si laureò nel 1951. Ma il giorno stesso della laurea, un suo insegnante, il professor Raymond Turpin, gli propose di collaborare ad un progetto di ricerca sulle cause del “mongolismo”, come allora era definita la Sindrome di Down, ed egli si sentì “chiamato” dalle circostanze ad accettare l’incarico.

Lejeune iniziò così la sua ricerca scientifica, partendo dalle conclusioni cui era arrivato nel 1866 il medico inglese John Langdon Down: una teoria che il futuro Venerabile reputava scientificamente infondata e razzista. Per il medico britannico, infatti, il “mongolismo” era una regressione verso forme primitive del genere umano, da attribuire a malattie infettive (tubercolosi, malattie veneree) dei genitori.

Lejeune non accettò mai questa teoria come vera, ed era fermamente convinto che la causa di una malattia di carattere genetico non fosse determinata dal cambiamento della qualità del messaggio ereditario, bensì da una mutazione di ordine quantitativo, ossia da un eccesso o da un difetto di alcune proporzioni del codice genetico.


Dopo aver studiato approfonditamente un caso di mongolismo, nell’agosto del 1958, Lejeune, affiancato dal Professor Turpin e dalla ricercatrice Marthe Gautier, rilevò l’esistenza, nei pazienti affetti da tale sindrome, di un quarantasettesimo cromosoma. Cromosoma che morfologicamente è identico agli elementi del ventunesimo paio. Ecco perché lo studioso propose di chiamare la sindrome di Down “Trisomia 21”. Nulla di disdicevole, dunque, nei genitori di quei bambini, nessuna degenerazione razziale, nessuna contagiosità come si credeva. Nel gennaio dell’anno successivo i tre ricercatori pubblicarono insieme i risultati del loro lavoro.

Lejeune fu il primo a promuovere l’uso dell’acido folico per le gestanti, come prevenzione della spina bifida, una rara malformazione della colonna vertebrale che colpisce il feto.

Nel 1957 divenne consulente delle Nazioni Unite come esperto sulle radiazioni atomiche. Egli, infatti, notando l’esistenza di anomalie cromosomiche indotte da minime quantità di radiazioni, confermò sperimentalmente la pericolosità dell’uso delle armi nucleari. Tali scoperte gli valsero la nomina alla Commissione Internazionale di Radioprotezione e al Comitato Scientifico delle Nazioni Unite.

Gli venne anche assegnata, nel 1964, la cattedra di “Genetica Fondamentale”, presso la Facoltà di Medicina di Parigi, creata appositamente per lui.

Marito e padre di cinque figli, Lejeune era un uomo dalle grandi virtù umane, credente dalla fede cristallina, amava profondamente i bambini affetti da sindrome di Down. Nella sua clinica di Parigi seguiva 5.000 piccoli pazienti, di ciascuno ricordava il nome e ai loro genitori diceva sempre: “dobbiamo amare il bambino e curare la malattia”.


Quando una coppia col bambino si recava da Lejeune per la prima volta, aveva in genere appena saputo della disabilità. I genitori erano disorientati, preoccupati e stanchi. Così raccontava una coppia: “Per noi il futuro era nero. Ci sentivamo incapaci di tenere questo bambino che stava per infrangere la nostra felicità e nello stesso tempo era impossibile abbandonarlo. Eravamo arrivati al punto di detestare il bambino e detestare noi stessi, perché lo detestavamo”. Il professore li accoglieva sorridendo, chiedeva il nome del bambino e lo prendeva tra le braccia. Poi chiedeva alla mamma di indossare un camice bianco e accomodarsi, le restituiva il bambino tra le braccia e iniziava ad auscultarlo sulle ginocchia della mamma. “Questi semplici gesti sono stati per noi una rivelazione. Non stava esaminando un malato, ma il nostro bambino. Ci ha spiegato tutto, com’era la malattia e quale avvenire attendeva nostro figlio e noi. Ci ha rassicurati rispondendo a ogni nostra domanda, ogni nostra angoscia. Siamo ripartiti con il nostro bambino e la pace nel cuore. Ci ha fatto scoprire l’amore di genitori”.

Grazie alle sue scoperte in campo genetico, di cui quella della trisomia 21 fu soltanto la più famosa, Lejeune guadagnò consensi e riconoscimenti internazionali e divenne uno scienziato famoso e stimato in tutto il mondo. Sperava che le sue ricerche potessero contribuire a contenere le forme di ritardo cognitivo diagnosticandole tempestivamente e, se possibile, anche prevenendole; non poteva immaginare che, solo pochi anni dopo, il mondo avrebbe usato la sua scoperta nelle diagnosi prenatali per abortire i bambini con sindrome di Down o con altre anomalie cromosomiche.  Fu un dolore per lui constatare che tutto il suo lavoro messo in campo per proteggerli e guarirli, veniva invece utilizzato per la loro eliminazione, attraverso una selezione prenatale nei fatti eugenetica. In questo contesto maturò la sua appassionata battaglia in difesa della vita nascente. “Da sempre la medicina – diceva – si batte per la salute e per la vita, contro la malattia e contro la morte: non può cambiare schieramento”.

La sua testimonianza forte e autorevole sul fronte della vita gli costò, tuttavia, l’aperta ostilità di tanti colleghi, intellettuali del mondo accademico e dei mass media. Da quel momento, infatti, tutte le porte gli furono chiuse: gli fu negato l’avanzamento di carriera per diciassette anni, vennero bloccati finanziamenti alle sue ricerche, gli fu negato un annunciatissimo Premio Nobel per la Medicina. A New York, in un’assemblea dell’ONU riguardante l’aborto, prese la parola, ricordando ai presenti che l’embrione a ogni stadio della sua crescita è un essere umano, e che la tentazione di sopprimere con l’aborto i piccoli d’uomo malati va contro la legge morale, di cui la genetica conferma la fondatezza. Aggiunse poi una battuta: “Ecco un’istituzione per la salute che rischia di trasformarsi in istituzione di morte”, servendosi del gioco di parole inglesi “institute of healthinstitute of death”. La sera stessa, scrisse a sua moglie: “Oggi pomeriggio ho perduto il premio Nobel”.

Tutto ciò non scalfì il suo pensiero e le sue convinzioni. Lejeune proseguì infatti sulla strada intrapresa, in nome degli insegnamenti di Gesù: “Ciò che avete fatto ai più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me”. Sentiva che quella battaglia era giusta, incoraggiato in tal senso anche dal sostegno dei Papi.


Papa Paolo VI nel 1974 creò la Pontificia Accademia delle Scienze e volle che Lejeune ne facesse parte. Giovanni Paolo II, suo profondo estimatore, lo nominò prima consultore del Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari, poi lo scelse, nel 1994, come primo Presidente della neonata Pontificia Accademia per la Vita. Un compito che il genetista portò avanti solo per due mesi, in quanto morì poco dopo, a causa di un male incurabile, il 3 aprile 1994 a Parigi.

In una intervista di qualche anno fa, la figlia Clara Lejeune raccontava: “Il principio di mio padre era che qualunque vita valesse la pena di essere vissuta e questo principio non è solamente cattolico; anche il giuramento di Ippocrate ha dentro questo valore: rispettare chiunque dal concepimento fino alla morte. Se metti la persona al centro, cambia completamente il modo di vedere le cose, perché invece di vedere una malattia, vedi una persona che ha una malattia, facendo di tutto per curarla”.

La vita di Lejeune è stata una grande testimonianza di come fede e scienza possano camminare insieme e crescere reciprocamente. Un esempio luminoso per quanti operano nel campo della biologia e della medicina, per le mamme in difficoltà tentate di ricorrere all’aborto e per tutti i bambini con problemi malformativi e malattie genetiche. Un prezioso punto di riferimento per chi difende la vita e promuove la dignità dell’uomo. In un momento storico in cui le minacce alla vita si fanno sempre più forti e il concetto culturale di “qualità della vita” (per il quale alcune vite non sarebbero degne di essere vissute) sembra farsi strada in Europa e nel mondo, il Venerabile Jérôme Lejeune può forse aiutarci a recuperare un’antropologia sana, rispettosa di ogni uomo in qualunque fase e condizione della sua esistenza, senza riserve e senza discriminazioni.

(fonte: unacasasullaroccia)